Reato art. 603 bis cp ai danni di richiedenti protezione internazionale ed ospiti di strutture di accoglienza, in possesso di documenti provvisori e pagati 6 euro l'ora
Cassazione Penale, Sez. 4, 27 luglio 2023, n. 32658
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 20/04/2023
Fatto
1. La Corte di appello di Torino il 14 aprile 2022, in parziale riforma della sentenza, appellata dall'imputato, con cui il G.u.p. del Tribunale di Asti il 20 gennaio 2021, all'esito del giudizio abbreviato, ha riconosciuto B.G. responsabile di più reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (c.d. "caporalato", art. 603-bis cod. pen.: capi A, B e C), fatti commessi tra marzo 2019 e giugno 2020, e di tentativo di esercizio arbitrario con violenza sulle persone (art. 393 cod. pen.: capo D), fatto commesso dal 21 giugno al 28 agosto 2019, in conseguenza condannandola, ritenuto più grave il reato di cui al capo A), con l'aumento per la continuazione con gli ulteriori reati e con la diminuzione per il rito, alla pena stimata di giustizia, oltre che, per quanto in questa sede rileva, al risarcimento dei danni, in forma generica, alle parti civili, invece, ha dichiarato non doversi procedere in relazione al capo D), per mancanza della condizione di procedibilità, e in conseguenza ha rideterminato, riducendola, la pena; con conferma nel resto.
2. Ricorre per la cassazione della sentenza la sig.ra G., tramite Difensore di fiducia, affidandosi a due motivi con i quali denunzia violazione di legge e difetto di motivazione.
2.1. Con il primo motivo lamenta violazione ed erronea applicazione dell'art. 603-bis, comma 1, cod. pen. e travisamento della prova in ordine alla sussistenza dello stato di bisogno dei lavoratori.
Il ricorrente richiama alcune circostanze di fatto che si leggono alla p. 7 della sentenza impugnata (ossia che tutti i lavoratori sfruttati erano richiedenti protezione internazionale ed ospiti di strutture di accoglienza, in possesso di documenti provvisori e aventi necessità di contratti di lavoro per regolarizzare la posizione in Italia e che buona parte di essi, ben undici persone, hanno dichiarato di essere pagati solo 6,00 euro l'ora, di non avere mai sottoscritto un contratto di lavoro, di ricevere ordini dall'imputato o dal "capo-vigna", di pagare il trasporto sul luogo di lavoro, di lavorare più ore del previsto ed anche di domenica) e ritiene le stesse non conformi alle emergenze istruttorie (e ciò in quanto due testimoni, cioè Omissis, le cui dichiarazioni si allegano sub nn. 1 e 2, hanno invece affermato di essere in regola con il permesso di soggiorno, di lavorare solo occasionalmente per 8-10 ore al giorno, di avere un contratto di lavoro e di ricevere una busta paga, di non avere mai ricevuto minacce dall'imputato).
Quanto a ciò che si legge alla p. 13 della decisione impugnata, ossia che tre testi, Omissis, hanno dichiarato che la persona che li andava a prendere e li portava sul luogo di lavoro dipendeva dall'imputata, la ricorrente richiama (allegati sub nn. 3-4-5) il contenuto dei verbali di denuncia-querela, appunto, dei tre, ove non si legge che pagavano, né direttamente né indirettamente, soldi a tale "Marna" (ossia l'odierna imputata) per essere trasporti sul luogo di lavoro.
Ancora: quanto all'affermazione, che si rinviene alla p. 13 della sentenza impugnata, secondo la quale alcuni testimoni hanno dichiarato di essere stati minacciati, si afferma che la confutazione dell'argomento che era stato trattato nell'appello appare generica e non tiene conto che la "violenza o minaccia" di cui al comma 2 dell'art. 603-bis cod. pen. non è nemmeno contestata all'imputata.
Inoltre, in relazione al passaggio della sentenza di appello (p. 13), ove si legge che in sede di incidente probatorio i tre testimoni hanno confermato che le disposizioni su dove lavorare e cosa fare le dava loro l'imputata, la lettura del relativo verbale di udienza (all. n. 6) dimostrerebbe quale sia stato il reale andamento dei fatti.
In ogni caso, la sentenza non motiverebbe adeguatamente l'approfittamento dello stato di bisogno, non potendosi ricavare automaticamente tale elemento dall'essere i lavoratori stranieri, peraltro senza distinguere tra comunitari e non, senza argomentare circa la limitazione, per effetto dello stato di bisogno, da distinguersi dal disagio, della libertà contrattuale della vittima; né basterebbe la condizione di irregolare sul territorio nazionale.
2.2. Con il secondo motivo censura erronea applicazione della legge penale e di altre norme da cui dipende l'applicazione della legge penale in relazione all'art. 603-bis, comma 3, cod. pen., ed alle norme dei contratti collettivi del settore agricoltura e, nel contempo, vizio di motivazione.
Rammenta la ricorrente che la sentenza impugnata, alla p. 15, par. n. 17, si impegna a confutare gli argomenti difensivi che erano stati svolti al par. n. 2.1 dell'atto di appello aventi ad oggetto gli aspetti normativi e retributivi del rapporto di lavoro, utili, in tesi di parte ricorrente, ad escludere la condizione di sfruttamento. In particolare, nell'impugnazione di merito si era ricostruita la retribuzione oraria (all. n. 7), nella maggior parte dei casi pari a 6,00 euro (talora 5,00 e talaltra 7,00) e ciò per confutare l'assunto della Guardia di Finanza secondo cui la retribuzione corretta era di circa 10,00 euro all'ora. Si era anche citato il contratto collettivo applicabile, ove si legge, all'art. 49, che la retribuzione minima è di 6, 71 euro all'ora.
Ebbene, la Corte confuta tale argomento sottolineando (alla p. 16) che dalla paga oraria di 6,00 euro andava detratta la somma da corrispondere per il trasporto sul luogo di lavoro e le spese di alloggio; spese di alloggio che troverebbero causa in un rapporto diverso dal rapporto di lavoro e che, comunque, non sarebbero mai state - si assume - frutto di coercizione.
Tale ragionamento non terrebbe conto che, però, che, come dimostrato documentalmente (all. nn. 9-10-11), il discostamento della paga oraria di 6,00 euro rispetto al minimo salariale previsto dai CCNL sarebbe minimo (oscillante tra 0,38 e 1,56 euro), dovendosi anche tenere conto della scarsa esperienza lavorativa e della carenza di qualifica specializzata. La modestia di tale scarto non consentirebbe di affermare la sussistenza di una situazione di sfruttamento come intesa dalla giurisprudenza di legittimità.
Inoltre, il discostamento dalle regole sull'orario di lavoro, sui compensi e sulle ferie sarebbe dettato dalle peculiarità del lavoro occasionale, di durata limitata nel tempo, ove il lavoro in giorno festivo, sempre su base volontaria, veniva in realtà compensato con il riposo in altro giorno.
Si cita il precedente di Sez. 4, n. 46842 dell'11/11/2021, P.M. Trib. Cosenza in proc. Ferrara Giuseppe, non mass., ove si sottolinea che non può dirsi esistente lo sfruttamento ove si registri la sommatoria di condotte realizzate episodicamente in danno di diversi lavoratori, mentre deve accertarsi la peculiare condizione di sfruttamento del singolo lavoratore. La sentenza impugnata non spiegherebbe perché le condizioni denunziate dai tre lavoratori indicati al capo C) debbano ritenersi coinvolgere la generalità dei lavoratori, e non solo alcuni.
Si nega poi che gli appartamenti messi a disposizione dei lavoratori siano dei degradanti tuguri (come si legge alla p. 15 della sentenza) e, anzi, quello ritratto in una fotografia allegata (sub n. 12), foto tratta dall'informativa dell'8 giugno 2020, sarebbe mal tenuto ma non certo degradante; né di ciò sarebbe responsabile l'imputata.
Infine, quanto al passaggio motivazionale (alla p. 17) circa il ridotto numero dei soggetti costituiti parte civile, si fa presente che su oltre venticinque lavoratori soltanto due si sono costituiti parte civile.
Si chiede, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.
3. Il P.G. nella requisitoria scritta del 29 marzo 2023 ha domandato dichiararsi inammissibile il ricorso.
Diritto
1. Premesso che il reato si prescriverà non prima del 1° settembre 2026, il ricorso è manifestamente infondato, per le seguenti ragioni.
2. In presenza di una doppia conforme di condanna, le censure, parzialmente costruite in fatto, ripercorrono, a ben vedere, le stesse doglianze già svolte con i primi due motivi di appello (pp. 1-10 dell'impugnazione di merito) e mirano a parcellizzare le emergenze istruttorie, richiamando soltanto parte delle fonti di prova senza confrontarsi, tuttavia, con il complessivo costrutto argomentativo risultante dalle lettura congiunta delle due sentenze di merito; e deve sottolinearsi come quella di appello ha già risposto adeguatamente alle doglianze svolte dalla Difesa.
Deve richiamarsi al riguardo la puntualizzazione di Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961, secondo cui «La mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del "caporale" e del datore di lavoro, essendo lo sfruttamento evincibile dalla penosa situazione personale e abitativa degli extracomunitari, dalla durata oraria della prestazione, svolta senza dotazioni di sicurezza e corsi di formazione e senza fruizione del riposo settimanale, nonché dall'entità della retribuzione, decurtata sensibilmente per spese affrontate dal datore di lavoro)».
Nel caso di specie, i Giudici di merito non si sono "accontentati" della mera condizione del cittadino extracomunitario presente nel territorio nazionale, accompagnata da una situazione di disagio e dal bisogno di accedere al lavoro, ma hanno posto in luce la situazione di vero e proprio sfruttamento del lavoratore, in posizione non già di mera disparità contrattuale ma di vera e propria soggezione rispetto al datore di lavoro, soggezione dimostrata dai profili retributivi (paga quasi sempre inferiore al minimo sindacale e decurtata per pretese spese sostenute dal datore di lavoro, pp. 13-16 della sentenza impugnata), dalla violazione delle norme in materia di igiene sul lavoro, svolto anche per nove o dieci ore al giorno, senza contratto, senza busta paga ed anche la domenica (pp. 9-10 della sentenza di primo grado), dalla sottoposizione a penose condizioni di lavoro e a degradanti condizioni di alloggio, in veri e propri tuguri con materassi a terra uno accanto all'altro in situazione di promiscuità (pp. 6 e 10 della decisione del Tribunale e pp. 14-15 dei quella impugnata).
3. Essendo, dunque, il ricorso inammissibile e non ravvisandosi, ex art. 616 cod. proc. pen., assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Costituzionale, sentenza n. 186 del 13 giugno 2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese consegue anche quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, che si stima conforme a diritto ed equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20/04/2023.