Non si contano nel periodo di comporto le assenze per infortunio determinato da colpa del datore di lavoro
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 04 marzo 2022 n 7247
Presidente: TRIA LUCIA
Relatore: GARRI FABRIZIA Data pubblicazione: 04/03/2022
Rilevato che
1. La Corte di appello di L'Aquila ha rigettato il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Vasto che aveva accertato l'illegittimità del licenziamento intimato dalla Bravo s.r.l. a S.M. in data 28 luglio 2015 per avvenuto superamento del periodo di comporto.
2. La Corte di merito ha accertato che l'art. 52 del CCNL di settore prevedeva in relazione ad un'anzianità superiore a sei anni un periodo di comporto di sedici mesi da calcolare nell'ambito di un triennio. Ha preso atto del fatto che il lavoratore si era assentato per cinquecento sei giorni ma che dalle assenze andavano scomputate quelle comunque riferibili ai tre infortuni sul lavoro sofferti tenuto conto anche del mancato mutamento delle mansioni, che pure era stato sollecitato dal lavoratore, evidenziando che aveva provato il nesso causale tra dette assenze ed in particolare l' infortunio del 22 luglio 2013 oltre che l'avvenuta violazione da parte della datrice di lavoro dell'art. 2087 cod. civ.. Ha ritenuto del pari provato che le operazioni cui si era dovuto sottoporre il lavoratore erano anch'esse causalmente collegate all'infortunio citato.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Bravo s.r.l. affidato a sei motivi. S.M. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell'art. 380 bis 1 cod. proc. civ..
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione ed errata interpretazione dell'art. 53 del d.p.r. n.1124 del 1965. Deduce la ricorrente che se la circostanza che il lavoratore abbia rinunciato alla prestazione INAIL non implica che la malattia possa essere imputata all'infortunio, tuttavia a giudizio della ricorrente, in mancanza di una richiesta di riapertura dell'infortunio, dovrebbero essere esclusi i periodi di malattia successivi all'attestata guarigione da parte dell'Istituto
5. La censura è inammissibile in quanto non coglie il senso della motivazione della sentenza. La Corte di appello ha infatti escluso dal computo utile ai fini dell'accertamento dell'avvenuto superamento del periodo di comporto tutte le assenze maturate nel periodo dal 31 ottobre 2013 al 9 giugno 2014 e dal 27 luglio 2014 al 28 luglio 2015 avendo accertato in fatto che il lavoratore aveva provato l'esistenza di un nesso causale con una malattia da ricollegare ad una compiuta violazione degli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro. La censura invece si appunta sulla circostanza che detti periodi di malattia erano successivi alla certificazione di avvenuta guarigione dagli esiti dell'infortunio. Si tratta di ragionamenti che si muovono su piani diversi. La circostanza che sia stata attestata una guarigione dagli esiti temporanei di uno specifico infortunio non esclude che possano persistere delle conseguenze permanenti che, come nel caso in esame, rendano morbigeno l'ambiente di lavoro in relazione alle modalità di espletamento della prestazione. Quest'ultimo ragionamento, sul quale si fonda la decisione, non è affatto inciso dalla censura che deve perciò essere dichiarata inammissibile.
6. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la nullità della sentenza in relazione all'art. 132 n. 4 cod.proc.civ., è inammissibile. Come è noto, per aversi la violazione del 132 n. 4 cod.proc.civ. è necessario che la motivazione risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, così come afferma l'odierna ricorrente, oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile (cfr. Cass. 25/09/2018 n. 22598). E tuttavia nel caso in esame la critica si risolve piuttosto in una diversa ricostruzione dei fatti acquisiti al processo che si asserisce essere logica e convincente laddove invece la sentenza, con un percorso logico
e fattualmente aderente alle allegazioni delle parti ed alle prove acquisite, ha ricostruito che le assenze accumulate dal lavoratore erano conseguenti ad una situazione di incompatibilità , cui la datrice di lavoro pur sollecitata non ha posto rimedio, tra le mansioni assegnate ed i postumi permanenti del primo infortunio e di quelli che sono poi seguiti sempre sul medesimo arto. Nessun contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili è ravvisabile nella motivazione della sentenza che segue un percorso logico con il quale il giudice di appello esercitando i poteri a lui attribuiti ha ricostruito i fatti traendone la conclusione della riferibilità delle assenze a patologie connesse alla mancata adozione da parte della datrice di lavoro delle precauzioni necessarie in relazione allo stato di salute del lavoratore che le era ben noto.
7. Del pari non può essere accolto il terzo motivo con il quale è denunciata la violazione dell'art. 104 del d.p.r. n. 1124 del 1965 deducendosi che non sarebbe stata mai contestata l'imputazione a malattia comune delle patologie certificate nelle assenze.
7.1. Rileva il Collegio che l'art. 104 citato si inserisce nel sistema delineato dal d.p.r. n. 1124 del 1965 per il conseguimento delle prestazioni da parte dell'Istituto per le assicurazioni degli infortuni sul lavoro ed in tale quadro impone dei precisi obblighi di contestazione da parte del lavoratore che si veda negata la riferibilità ad infortunio sul lavoro di un determinato evento ovvero veda ridotta l'invalidità temporanea o la misura dei postumi permanenti.
7.2. La sentenza invece si preoccupa di analizzare, in disparte dalle prestazioni previdenziali, alle quali il lavoratore può ben rinunciare, se comunque la patologia che ha determinato le assenze fosse o meno riferibile ad una causa lavorativa ovvero risulti o meno collegata alle modalità di svolgimento della prestazione. In questa prospettiva la Corte di appello si è attenuta a principi ripetutamente affermati da questa Corte (cfr. tra le altre Cass. 27/06/2017 n. 15972 e Cass. 28/03/2011 n. 7037) secondo cui "le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cod.civ., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinchè l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ.. " In tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata.
In sostanza è corretta la sentenza che ritiene che le assenze del lavoratore dovute a malattia connessa a specifici fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, anche quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica - per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (cfr. Cass. n.7037/2011 cit.).
8. Il quarto motivo, con il quale si denuncia la violazione dell'art. 2087 cod.civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ. è inammissibile sotto vari profili. In primo luogo, perché non consente di isolare nel motivo i due distinti profili di violazione denunciati (cfr. Cass. 23/10/2018 n. 26874 e 23/09/2011 n. 19443). Inoltre poiché la censura da un canto si propone come una denuncia di violazione di legge ma nella sostanza si risolve nella richiesta di procedere ad una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella opposta ma ugualmente compatibile con gli stessi adottata dal giudice di appello, non consentita davanti alla Cassazione.
9. Neppure è ravvisabile la violazione art. 132 cod. proc. civ. per essere del tutto apparente la motivazione della sentenza che non spiegherebbe in che modo le assenze connesse agli interventi chirurgici siano ricollegabili agli infortuni posto che non era mai stata lamentata la violazione di norme antinfortunistiche. (quinto motivo).
9.1. La sentenza chiarisce a pagina 9 nell'ultimo capoverso le ragioni per le quali ha ritenuto che gli interventi chirurgici alla mano si erano resi necessari per ovviare agli esiti dell'infortunio. Anche in questo caso la censura più che denunciare il vizio processuale si risolve nella proposta di una diversa ricostruzione fattuale. La motivazione c'è ed è tutt'altro che apparente.
10. Del pari è inammissibile l'ultimo motivo di ricorso con il quale è denunciata la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ. per omessa pronuncia su specifiche eccezioni e impugnazioni proposte. Ancora una volta la censura contrappone alla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello una diversa valutazione delle circostanze acquisite (in particolare con riguardo all'esistenza di una sorta di concorso di colpa nell'aggravamento dei postumi. Sotto la veste di un vizio processuale, la mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, si cela la pretesa di una diversa ricostruzione dei fatti. Di fatto ciò di cui ci si duole è che non si sarebbe tenuto nella dovuta considerazione il comportamento del lavoratore, attestato dal consulente che aveva dato atto del fatto che il gesso era stato autonomamente rimosso ma non ne aveva poi tratto alcuna conclusione così come tale circostanza era stata disattesa anche dal giudice di appello che peraltro non aveva disposto la rinnovazione della consulenza. Orbene, una tale censura avrebbe dovuto essere veicolata come vizio di motivazione, nei limiti in cui lo stesso è ancora ammissibile, e non lo è stato fatto. Va rilevato infatti che se nel giudizio d'appello è ammissibile la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio, ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, poiché non viene chiesta l'ammissione di un nuovo mezzo di prova, tuttavia il giudice, che pur non ha l'obbligo di motivare il diniego, che può essere anche implicito, è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall'appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicché l'omesso espresso rigetto dell'istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata.
11. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R.n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € (Il 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso a norma dell'art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso in Roma nella Adunanza camerale del 28 ottobre 2021