Mobbing: come si determina il danno
Cassazione Civile Sezione Lavoro 02 dicembre 2021 n 38123
1. La Corte d’Appello di Potenza ha accolto per quanto di ragione l’appello principale proposto da G.C. nei confronti del Comune di Rapolla avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Melfi e, parzialmente riformandola, ha condannato il Comune di Rapolla a pagare in favore della lavoratrice, a titolo risarcitorio, la complessiva somma di euro 62.475,93, di cui euro 10.200,00 a titolo di danno non patrimoniale, con interessi legali sulla predetta somma complessiva, via via rivalutata dal dovuto al saldo.
2. Sempre il giudice di secondo grado ha rigettato l’appello incidentale proposto dal Comune di Rapolla nei confronti di G.C..
3. La lavoratrice, dipendente del Comune di Rapolla sino all’8 luglio 2010, con inquadramento nel livello D e posizione economica D1 del CCNL settore, aveva convenuto in giudizio il Comune di Rapolla, ex datore di lavoro, per l’accertamento del mobbing subito nel periodo luglio 2007-luglio 2010, consistito in plurimi atti di emarginazione, isolamento e demansionamento, e - ancora - nell’illegittimo mancato riconoscimento della posizione organizzativa rivestita sino al primo semestre 2007, chiedendo altresì il risarcimento di tutti i danni subiti.
Il Tribunale aveva accolto in parte la domanda accertando la condotta illecita dell’Ente nei confronti della G.C. nel periodo 2007-2010 e riconoscendo in favore della stessa un risarcimento del danno pari a euro 61.737,93 (euro 52.275,93, a titolo di danno patrimoniale, ed euro 9.642,00, per danno non patrimoniale), oltre accessori di legge e spese.
4. Il giudice di secondo grado, nell’accogliere in parte l’appello principale ha affermato quanto segue.
4.1. La determinazione giudiziale del danno alla professionalità, ridotto dal Tribunale nella misura del 50%, non era stata arbitraria in quanto aveva costituito una modalità di determinazione equitativa del danno da demansionamento, che normalmente la giurisprudenza di merito fissa in una certa percentuale della retribuzione mensilmente percepita.
4.2. Era stato correttamente effettuato il calcolo del danno risarcibile per il mancato riconoscimento dell’incarico di responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della relativa posizione organizzativa.
Ciò in quanto il calcolo del danno risarcibile era stato eseguito valutando le chance, ossia le possibilità di conseguire un risultato positivo che la ricorrente aveva in relazione al numero di altri aspiranti alla posizione organizzativa.
4.3. Era fondata solo in parte la censura sull’erroneità della determinazione del danno biologico a causa della sottovalutazione di quello subito per effetto dell’accertato mobbing, tenuto conto della durata della condotta datoriale, del precedente stato di salute della G.C. e delle conclusioni medico legali rassegnate nella relazione depositata con il ricorso introduttivo del giudizio.
In proposito, la Corte d'Appello ha affermato che il primo giudice aveva errato nell’individuare l’età della ricorrente al momento della produzione del danno (52 anni, non 62), con una differenza che incideva senz’altro sulla determinazione equitativa del danno in parola (valore medio di liquidazione per un danno biologico del 5% a carico di persona di 52 anni –euro 6.800,00; personalizzazione max del 50% - euro 10.200,00). Per il resto, invece, il giudice di primo grado aveva correttamente applicato le tabelle del Tribunale di Milano, dopo aver disposto una CTU per la determinazione della lesione all’integrità psicofisica, anche sulla scorta delle osservazioni medico-legali di parte.
4.4. Erano infondate le doglianze circa il mancato riconoscimento del danno morale e del danno derivante dalla violazione della privacy, nonché del danno da forzato collocamento in quiescenza, in quanto il Tribunale aveva applicato il massimo coefficiente di personalizzazione del danno e non c’era stata prova delle conseguenze dannose delle afflizioni, che non potevano ritenersi esistenti in re ipsa; infine, nello stesso atto di appello la ricorrente aveva riconosciuto che il proprio pensionamento era dovuto ad una inidoneità psicofisica al servizio accertata su conforme richiesta della lavoratrice medesima.
5. La Corte d'Appello ha rigettato integralmente l’appello incidentale del Comune per le seguenti considerazioni.
5.1. Il Comune, con un primo motivo, si era doluto che nella sentenza del Tribunale si facesse riferimento alla circostanza che in occasione delle elezioni del 2007 la sorella della G.C. avrebbe rifiutato di candidarsi nella lista elettorale del nuovo sindaco, sostenendo che ciò non avrebbe trovato riscontro nelle risultanze processuali, di talché la sentenza era da considerarsi come pronuncia c.d. a sorpresa.
Il giudice d’appello ha ritenuto questo motivo inammissibile per difetto di un interesse ad impugnare la sentenza solo per ottenere la modifica d’un accertamento di mero fatto, privo di conseguenze sulla decisione finale.
Analoghe considerazioni sono state formulate riguardo alla contestazione, svolta dal Comune, con il secondo motivo di appello, in ordine alla deposizione testimoniale sulla circostanza che all’interno del Comune si parlasse da tempo di un possibile licenziamento della lavoratrice.
5.2. Il Comune, con il terzo motivo, censurava anche l’esame delle prove testimoniali e si doleva della contraddittorietà della sentenza, in quanto da un lato aveva affermato la mancanza di un diritto soggettivo alla posizione organizzativa in capo alla G.C., dall’altro aveva riconosciuto alla medesima il danno da perdita di chance.
La Corte d’Appello, in proposito, ha affermato che tale censura era infondata, atteso che il danno da perdita di chance non coincide con il diritto soggettivo al bene della vita richiesto.
5.3. Altro motivo di appello (il quarto) riguardava la liquidazione equitativa del danno per perdita di chance e del danno da demansionamento.
Il giudice di secondo grado ha ritenuto inammissibile tale doglianza perché generica e assertiva.
5.4. Quanto alla contestazione della CTU in ordine al valore di punto stabilito dalle Tabelle di Milano per un danno biologico pari al 5%, e alla liquidazione del danno biologico anche riguardo all’apporto concausale della lavoratrice, la Corte d’Appello, nel rigettare le doglianze, ha rilevato che si trattava di valori indicativi di una liquidazione pur sempre equitativa ed ha ricordato la giurisprudenza di legittimità in materia di concorso della condotta illecita con preesistenti circostanze naturali.
6. Per la cassazione della sentenza d’appello ricorre il Comune di Rapolla prospettando tre motivi di impugnazione.
7. Resiste con controricorso e ricorso incidentale, articolato in quattro motivi, G.C..
8. In prossimità dell’adunanza camerale il Comune di Rapolla ha depositato memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo del ricorso principale il Comune di Rapolla deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 342 e 434, cod. proc. civ. Nullità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei motivi di appello. Ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218, cod. civ.
Il Comune si duole del rigetto delle prime censure proposte in appello in quanto afferma che per la sussistenza del mobbing è necessaria la prova dell’elemento soggettivo e cioè dell’intento vessatorio.
Lamenta altresì che erroneamente la Corte territoriale ha considerato generico il terzo motivo d’appello, che invece aveva contestato la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado segnalando, altresì, che non era stato spiegato quali fossero le situazioni alle quali era stata ricondotta la sussistenza del mobbing.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti, o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cass. n. 26684 del 2017).
Quindi, l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.
Nella specie, la Corte d’Appello ripercorre la motivazione della sentenza del Tribunale e le tappe della progressiva marginalizzazione della lavoratrice quali emerse dall’istruttoria: spostamento in una stanza al piano terreno destinata alle relazioni con il pubblico (front office), con carenze logistiche – fascicoli poggiati sul pavimento per mancanza di scaffali – e compiti estranei alle responsabilità proprie delle sue mansioni (spostamento giustificato col preteso recupero di una stanza per gli assessori poi assegnata ad altra collega); mancata conferma a partire dal 2007 nella posizione organizzativa dell’area amministrativa, affidata ad altro collega in passato valutato come poco adatto alla posizione organizzativa e di coordinamento, e poi dopo il pensionamento di quest’ultimo affidata ad altri; mancato smistamento della corrispondenza destinato all’ufficio della G.C., che così restava priva delle necessarie informazioni; sottoposizione ad un’azione disciplinare poi conclusasi con archiviazione; tollerata e aperta conflittualità con altro collega.
La Corte d’Appello ha affermato, come già il Tribunale, che la lavoratrice, pur avendo assunto un atteggiamento di chiusura verso l’Amministrazione, nondimeno aveva progressivamente patito un processo di svuotamento sistematico delle mansioni e di marginalizzazione, pur continuando formalmente a ricoprire la responsabilità dell’ufficio.
Risultava - quindi - provato l’illecito in danno del dipendente, considerando ciascuna delle condotte, di per sé lecite, come parti di un disegno persecutorio piuttosto evidente.
Dunque, facendo corretta applicazione dei principi sopra richiamati, in ragione dell’accertamento di fatto, la Corte d’Appello ha affermato che le doglianze del Comune, che con il motivo in esame intende sostituire un proprio ragionamento decisorio a quello della Corte territoriale, riguardavano affermazioni che esulavano dalla ratio decidendi della decisione del Tribunale, vertendo su meri fatti privi di conseguenze sulla decisione finale.
2. Con il secondo motivo del ricorso principale è prospettata, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1218, 2055, 2059 e 2087, cod. civ., e degli artt. 40 e 41, cod. pen.
Il Comune di Rapolla si duole della liquidazione del danno: a) per la perdita di chance di attribuzione della posizione organizzativa come parametrata percentualmente all’indennità di posizione e all’indennità di risultato (nella misura massima); b) per la somma commisurata alla retribuzione mensile goduta per 3 anni per il demansionamento e la perdita delle opportunità di formazione; c) per il danno biologico riconosciuto nella percentuale invalidante del 5% maggiorata del 50%, liquidata secondo le tabelle milanesi.
La Corte ha modificato solo la liquidazione del danno biologico, in ragione dell’errata individuazione dell’età della lavoratrice, confermando nel resto la sentenza; ad avviso del ricorrente, in tal modo vi sarebbe stata erronea applicazione dei criteri di quantificazione, in violazione della normativa richiamata.
2.1. Il secondo motivo di ricorso è in parte inammissibile e in parte non fondato.
Il Comune di Rapolla argomenta la censura, quanto al danno per la mancata assegnazione della posizione organizzativa, ripercorrendo la motivazione della sentenza del Tribunale e, nel censurarla, non si confronta con la decisione d’appello che ha rilevato come il danno da perdita di chance non corrisponda al diritto alla posizione organizzativa.
Anche riguardo al danno per lo svuotamento di contenuto delle mansioni il Comune ricorda la sentenza del Tribunale e riporta il motivo di gravame. Così per la censura relativa alla
liquidazione del danno biologico, che è svolta ricordando la statuizione del Tribunale e la censura prospettata in appello.
Di talché siffatti profili del motivo di impugnazione sono inammissibili in quanto non censurano adeguatamente la ratio decidendi della sentenza d’appello.
Inoltre, il motivo non è fondato nella parte in cui contesta l’affermazione della Corte territoriale circa l’irrilevanza delle preesistenti circostanze naturali rispetto alla condotta illecita del datore di lavoro, prospettando che nel caso di concorso di concause nella produzione del danno vi sarebbe una delimitazione del danno risarcibile da effettuare con prudente e ragionevole apprezzamento e considerando tutte le circostanze del caso.
Nel caso di specie i giudici di merito non avevano riconosciuto alcuna efficacia, ai fini della limitazione del danno risarcibile, alla pregressa indipendente situazione patologica della ricorrente.
Ed infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 9899 del 2016 e n. 13954 del 2014), di cui la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41, cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.
3. Con il terzo motivo di ricorso il Comune deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92, 112, 342 e 434, cod. proc. civ.
Il motivo è infondato: ex art. 336, comma 1, cod. proc. civ. la pronuncia sulle spese costituisce capo della sentenza dipendente da quello inerente al merito, sicché in caso di riforma in tutto o in parte della pronuncia di prime cure (come avvenuto nella specie), il giudice deve procedere d’ufficio a nuova regolamentazione del regime delle spese in ragione dell’esito complessivo di lite (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 14916 del 2020).
4. In conclusione, il ricorso per cassazione del Comune Rapolla deve essere rigettato.
5. Può passarsi, ora, all’esame del ricorso per cassazione della G.C..
6. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1218, 2055, 2059, 2103 e 2087, cod. civ.; 1174 e 1321, cod. civ.; 1375, 2697, cod. civ.; artt. 2, 4 e 35, Cost.
Il tutto in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., per erronea e ingiusta determinazione del danno alla professionalità.
La lavoratrice si duole dell’ingiusta determinazione del danno alla professionalità, atteso che la Corte d’Appello lo aveva quantificato facendo riferimento allo stipendio mensile lordo, ma poi aveva operato sulla somma la riduzione del 50%, in considerazione della non completa privazione delle professionalità proprie dell’ufficio e della posizione, dell’atteggiamento di chiusura della lavoratrice e della gravità complessiva della condotta datoriale.
Deduce la ricorrente che era intervenuta liquidazione secondo equità pur non essendovi stata impossibilità o difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur.
Inoltre, sempre ad avviso della ricorrente erroneamente era stata valutata l’incidenza della condotta del danneggiato nella rilevante misura del danno, di talché, mentre da un lato si era proceduto a liquidazione equitativa, dall’altro erano stati utilizzati percorsi logici a ciò non pertinenti.
6.1. Il motivo è inammissibile.
Occorre premettere che la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a rendere evidente, in motivazione, il percorso logico seguito nella propria determinazione al fine di consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento (cfr., Cass., n. 22272 del 2018).
Per evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo è necessario, quindi, che il giudicante indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la propria decisione in ordine al “quantum” (cfr. Cass., n. 2327 del 2018). La Corte d’Appello, nella specie, ha esaminato la censura relativa alla riduzione nella misura del 50% ed ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale che aveva proceduto a tale adattamento del parametro della retribuzione mensilmente percepita in ragione delle circostanze del caso concreto.
Come ricorda la stessa ricorrente, il Tribunale dopo aver preso a riferimento la retribuzione mensile lorda, aveva tenuto conto della durata del demansionamento, operando una riduzione del 50% in considerazione della circostanza della non completa privazione delle professionalità proprie dell’ufficio di preposizione, dell’atteggiamento di chiusura della lavoratrice stessa (che aveva probabilmente acuito il conflitto) e della gravità complessiva della condotta datoriale.
Dunque, il giudice di merito ha indicato i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui è stata basata la decisione in ordine al “quantum”, che è stata effettuata partendo da un parametro oggettivo (la retribuzione mensile lorda) e procedendo alla liquidazione tenendo conto dell’accertamento di fatto sul periodo del demansionamento, sull’effettiva privazione della professionalità, sull’atteggiamento tenuto dalla lavoratrice e sulla condotta datoriale.
Tale accertamento ha trovato conferma nell’argomentata statuizione della Corte d’Appello: di contro la lavoratrice, con il motivo di ricorso in esame, chiede una rivalutazione dell’accertamento di merito inammissibile in sede di legittimità.
6.2. Ed è noto che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. consente, come già osservato, di impugnare per cassazione - oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione - solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (cfr., Cass., n. 20553 del 2021).
Pertanto (una volta escluso, come nella specie, che la motivazione resa dalla Corte d’appello sia inesistente o apparente o contraddittoria), l’accertamento dei fatti può essere censurato in sede di legittimità solo per l’omesso esame da parte del giudice di merito di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione e appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza dell’iter argomentativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha specificamente indicato quali sarebbero stati i fatti storici che, sebbene decisivi e oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, la Corte d’Appello avrebbe del tutto omesso di esaminare - atteso, comunque, che la Corte territoriale ha preso in esame la CTU disposta in primo grado, e la relazione depositata con il ricorso introduttivo, nonché le Tabelle di Milano, come si evince dal tenore complessivo della sentenza - limitandosi, piuttosto, a sollecitare un’inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio e della documentazione medica acquisita.
La valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili innanzi a questa Corte.
7. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione degli artt. 50, 109, 110, del d.lgs. n. 267 del 2000; dell’art. 15 del CCNL 22 gennaio 2004; dell’art. 64 del CCNL decentrato integrativo 2002-2005; dell’atto di nomina del sindaco del 10 gennaio 2006, n. 2; dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001; dell’art. 97 Cost.; il tutto in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., per erronea e ingiusta determinazione del danno per mancato riconoscimento dell’incarico di responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della relativa posizione organizzativa. Nullità della sentenza in parte qua per motivazione contraddittoria, incongrua, aberrante e abnorme. La lavoratrice, nell’esporre la censura, ripercorre l’atto introduttivo del giudizio e la sentenza del Tribunale, confermata sul punto dalla Corte d’Appello, che ha affermato che il calcolo del danno risarcibile è stato correttamente eseguito valutando le chance, ossia le possibilità di conseguire un risultato positivo in relazione al numero degli altri aspiranti alla posizione organizzativa, compreso il lavoratore cui era stata poi attribuita, cui non era affatto perclusa la possibilità di conseguire una nuova e ulteriore posizione organizzativa, con conseguente inammissibilità del motivo.
La lavoratrice si duole del mancato riconoscimento dell’incarico di responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della relativa posizione organizzativa e della ingiusta determinazione del danno in merito.
7.1. Il motivo non è fondato.
Il danno patrimoniale da perdita di “chance” è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione “ex ante” da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l’accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati (Cass. n. 2737 del 2015).
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi in ragione d’un motivato accertamento di fatto sulla mera possibilità del conferimento della posizione organizzativa.
8. Con il terzo motivo di ricorso la lavoratrice ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1218, 2055, 2059,2103 e 2087, cod. civ., dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, dell’art. 32 Cost.
Il tutto in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., per erronea e ingiusta determinazione del danno biologico, nullità della sentenza in parte qua per motivazione contraddittoria, incongrua, aberrante e abnorme.
Assume la ricorrente, dopo aver ricordato i principi giurisprudenziali in materia di danno biologico, di aver adempiuto il proprio onere della prova con riguardo alla sussistenza del danno biologico: a tal fine richiama la documentazione prodotta in sede di merito, nonché la narrativa in fatto del ricorso introduttivo del giudizio.
In altre parole, la ricorrente incidentale lamenta come vizio di motivazione l’omessa considerazione della documentazione allegata con il ricorso introduttivo del giudizio e delle osservazioni mosse al CTU. Ripercorre, quindi, la documentazione medica prodotta a sostegno delle proprie argomentazioni.
8.1. Il motivo è inammissibile in quanto, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge e di mancanza di motivazione, lo stesso degrada in realtà verso l’inammissibile richiesta di una rivalutazione delle risultanze istruttorie.
La complessiva censura traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360, cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti e una propria lettura del materiale di causa, senza confrontarsi in modo specifico con la ratio decidendi della sentenza di appello, che di fatto viene censurata attraverso la critica alla sentenza di primo grado (Cass. SU. n. 34476 del 2019).
E infatti, la Corte d’Appello ha accolto in parte la censura inerente all’individuazione dell’età della lavoratrice. Per il resto, ha rigettato l’impugnazione avendo il giudice di primo grado correttamente applicato le Tabelle di Milano, dopo avere disposto CTU per la determinazione della lesione all’integrità psico-fisica, anche sulla scorta delle osservazioni medico legali di parte. Le censure svolte dalla ricorrente, dunque, si infrangono sul differente accertamento in fatto operato, sul punto, dalla Corte d’Appello, anche in ragione dei principi richiamati sopra al punto 6.2.
Anche in proposito la ricorrente non ha specificamente indicato quali sarebbero stati i fatti storici che, sebbene decisivi e oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, la Corte d’Appello avrebbe del tutto omesso di esaminare.
9. Con il quarto motivo del ricorso incidentale viene dedotta la violazione degli artt. 5 del dPR n. 37/2009; 1 del dPR n. 181 del 2009; 2059 cod. civ.; 185 cod. pen.; 2947, comma 3, cod. civ.; 75, commi due e tre, cod. proc. pen. Violazione e falsa applicazione dei principi di diritto affermati da Corte cost. n. 102 del 1981, n. 118 del 1986, n. 182 del 1996, Cass. n. 4201 del 1998, n. 14443 del 2000, n. 1643 del 2000, n. 23918 del 2006, n. 13530 del 2009, n. 11851 del 2015. Tutto in relazione all’art. 360, n. 3 n. 4, cod. proc. civ., per ingiusto mancato riconoscimento dei danni morali. Motivazione assente, incongrua, aberrante e apparente.
La lavoratrice si duole del mancato riconoscimento del danno morale, che costituisce autonoma categoria di danno rispetto a quello biologico, danno morale ravvisabile - nel caso di specie – perché la condotta del datore di lavoro costituiva, oltre che un inadempimento contrattuale, anche un’ipotesi delittuosa.
9.1. Il motivo non è fondato.
Nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di “danno morale”, la quale, nei sistemi tabellari precedenti, veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione.
Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto,che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle tabelle stesse, dando adeguatamente conto in motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari (si v. Cass. n. 11754 del 2018).
La Corte d’Appello, decidendo sulla denuncia del mancato riconoscimento del danno morale, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, in quanto ha rigettato la censura poiché il Tribunale aveva applicato il massimo coefficiente di personalizzazione del danno, tenendo conto dell’accertata sofferenza interiore ragionevolmente cagionata dal vissuto negativo della lavoratrice, così confermando l’accertamento svolto dal giudice di primo grado.
10. Dunque, anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
11. In ragione della reciproca soccombenza le spese di giudizio sono compensate tra le parti.
12. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto rispettivamente per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuti.
PQM
La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto rispettivamente per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuti.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 27 ottobre 2021.
Il Presidente Antonio Manna
Data pubblicazione 02/12/2021