Infezione da Coronavirus “in occasione di lavoro” e infortunio
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MILANO
Sezione Lavoro
In composizione monocratica, in persona del giudice del lavoro, dott.ssa Rossella Chirieleison, ha emesso la seguente
Sentenza
nella controversia di primo grado iscritta al n. RG 2904/2021, pendente
tra
rappresentata e difesa, giusta procura allegata al ricorso introduttivo, dall’Avv. Gigliola Pirotta ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Milano, Via Cernaia n. 4
ricorrente
e
INAIL, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso, per procura generale alle liti a rogito Notaio Paola Mina di Milano, rep. 31279, racc. 17684, dall’avv. Italo Casagranda ed elettivamente domiciliato in Milano, Corso di Porta Nuova
resistente
Oggetto: accertamento della qualificazione di infortunio sul lavoro dell’assenza per Covid 19
Conclusioni:
Ricorrente:
accertare e dichiarare che il COVID-19 contratto dalla ricorrente in data 1 maggio 2020 costituisce infortunio sul lavoro ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 del TU infortuni e, per l’effetto, condannare I.N.A.I.L. - Istituto Nazionale Assicurazioni Infortuni Sul lavoro, in persona del suo presidente in carica pro tempore, con sede in Via IV Novembre 144 - 00187 Roma (RM) al riconoscimento dell’inabilità temporanea assoluta nella misura di giorni 60. Con il favore dei compensi professionali ex D.M. 20 luglio 2012 n. 140
Resistente:
Voglia l’Ill.mo Giudice del Lavoro adito respingere le domande avversarie in quanto infondate in fatto e diritto.
Spese come per legge (art. (art. 42 L. 24 novembre 2003, n. 362).
Fatto
La ricorrente ha convenuto in giudizio l’INAIL, deducendo: - di essere dipendente dell’ospedale – ASST di Milano a far tempo dal 1 agosto 1985, da ultimo con inquadramento nel livello C4 CCNL sanità pubblica e con mansioni di assistente amministrativo, addetta al Dipartimento Emergenza e Accettazione (DEA), al 2°. piano blocco DEA; - di essere stata trasferita, in data 1 marzo 2020, a seguito della diffusione del Covid-19 presso la Direzione medica di Presidio, collocata nel blocco Centrale dell’Ospedale, piano terra Atrio Centrale; - di essere stata assegnata, a far data dal 23 marzo 2020 alla neocostituita “Centrale Cartelle Covid”; - che sia presso la Direzione Medica di Presidio che presso la Centrale Cartelle Covid, in un secondo momento trasferita all’archivio cartelle cliniche, sito nel blocco -1, non erano state adottate misure organizzative idonee a ridurre il rischio di contagio, né con riferimento agli accessi, né con riferimento all’organizzazione degli spazi, né infine con riferimento alla pulizia ed alla sanificazione dell’ambiente; - di avere accusato, in data 1.5.2020, astenia e febbre; - di essersi recata al pronto soccorso e di essere stata sottoposta al tampone naso-faringeo con risultato positivo; - di essere stata, quindi, assente dal lavoro fino al 29 giugno 2020; - che in data 2 giugno 2020 l’INAIL aveva chiesto all’Azienda Ospedaliera di indicare le mansioni svolte dalla ricorrente precisando se fosse stata a contatto con soggetti Covid e se utilizzasse i DPI; - che con comunicazione del 22 giugno 2020, il Direttore medico di Presidio aveva risposto che la ricorrente era il primo caso di positività Covid nel gruppo di lavoro presso il quale era stata trasferita; che l’attività a cui era preposta prevedeva soltanto contatti con utenti interni e che in ogni caso erano stati prescritti i DPI; - che in data 3 luglio 2020 l’INAIL aveva formulato nuova richiesta di chiarimenti in merito alla nozione di utenti interni e ai contatti intervenuti tra la ricorrente e altri soggetti risultati positivi al Covid;
- che in data 16 luglio 2020 l’Azienda si era limitata a replicare che l’attività svolta dalla ricorrente non era a contatto con il pubblico, che si trattava del primo caso di positività nel gruppo presso il quale era stata trasferita e che non era stata in contatto stretto con soggetti risultati positivi; - che con provvedimento del 26.7.2020 l’INAIL aveva definito negativamente il caso per mancanza di nesso causale tra l’evento denunciato e la lesione accertata; - di avere proposto opposizione avverso detto provvedimento, deducendo di avere avuto rapporti quotidiani con il personale sanitario che svolgeva la propria attività assistenziale su pazienti positivi e presso reparti Covid e che i propri familiari erano risultati negativi ai test sierologici; - che in data 22 agosto 2020 l’INAIL aveva respinto l’opposizione, non rilevando, sotto il profilo sanitario, motivazioni tali da giustificare la modifica del giudizio precedentemente espresso.
Tanto premesso, la ricorrente ha concluso come sopra riportato. Si è costituito l’INAIL, chiedendo il rigetto del ricorso.
A tal fine l’Istituto ha richiamato quanto comunicato dal datore di lavoro ed ha eccepito che la ricorrente non aveva provato di avere contratto l’infezione da Covid in ambiente lavorativo, quantomeno in termini di qualificata probabilità.
E’ stata svolta attività istruttoria con l’escussione di testimoni.
Alla udienza dell’11.2.2022 la causa è stata decisa come da dispositivo.
Diritto
Le domande di parte ricorrente sono fondate e devono essere accolte.
1. L’art. 2 dpr 30 giugno 1965 n. 1124 (TU infortuni) statuisce che “L'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro per più di tre giorni.”
Per poter qualificare un evento come infortunio sul lavoro è quindi necessaria la presenza di due condizioni: la causa violenta e l’occasione di lavoro.
E’ stato precisato che “In tema di infortuni sul lavoro, l'azione violenta idonea a determinare, ex art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, una patologia riconducibile all'infortunio protetto deve operare come causa esterna, che agisce con rapidità ed intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino causa nell'affaticamento, costituente normale conseguenza del lavoro” (Cass. Sez. Lav. - , Ordinanza n. 23894 del 03/09/2021, Rv. 662120 - 01); e che “Nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l'azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomo - fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione. La relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di una assicurata, già infermiera professionale presso un centro di igiene mentale, volta a farsi riconoscere la natura di infortunio sul lavoro della forma virale HBV HCV da cui era risultata affetta, sull'assunto che mancasse la prova del nesso di causalità tra eventuali lesioni, da puntura di siringa o altro, e l'infezione contratta, laddove dal principio sopra enunciato discende l'irrilevanza di una specifica causa violenta)” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 6899 del 08/04/2004, Rv. 571954 – 01; conf. Cass. Sez. L, Sentenza n. 20941 del 28/10/2004, Rv. 577883 – 01; Cass. Sez. L, Sentenza n. 9968 del 12/05/2005, Rv. 582782 – 01; ).
La Suprema Corte ha poi chiarito che “l'"occasione di lavoro" di cui all'art. 2 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1224, ricomprende tutte le condizioni, incluse quelle ambientali e socio - economiche in cui l'attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall'apparato produttivo o dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, con il solo limite, in questo caso, del cosiddetto rischio elettivo” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 6 del 05/01/2015, Rv. 634074 - 01).
2. L’art. 42, comma 2, del d.l 17 marzo 2020, n. 14 “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” prevede che “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti ((dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante "Modalita' per l'applicazione delle tariffe 2019")). La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.”
La Circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 (doc. 31, fascicolo parte ricorrente) precisa che le affezioni morbose da Coronavirus avvenute “in occasione di lavoro” sono riconducibili, come accade per le malattie infettive e parassitarie, all’infortunio sul lavoro e non alla malattia professionale.
Con particolare riferimento alle strutture sanitarie, l’Istituto chiarisce che per gli operatori sanitari ed anche per il personale non sanitario operante negli ospedali ed a contatto con il pubblico o con l’utenza, il rischio di contagio, genericamente riguardante tutti i cittadini, è “aggravato fino a diventare specifico”, con la conseguenza che per tali operatori vige una presunzione semplice di origine professionale:
“La norma di cui al citato articolo 42, secondo comma, chiarisce alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), avvenuti in occasione di lavoro. In via preliminare si precisa che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta.
In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto.
La disposizione in esame, confermando tale indirizzo, chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro per tutti i lavoratori assicurati all’Inail.
Sono destinatari di tale tutela, quindi, i lavoratori dipendenti e assimilati, in presenza dei requisiti soggettivi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, nonché gli altri soggetti previsti dal decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale) e dalle altre norme speciali in tema di obbligo e tutela assicurativa Inail.
Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus.
A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.
Le predette situazioni non esauriscono, però, come sopra precisato, l’ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice.
In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica.
Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”
3. Costituisce fatto notorio che il virus del Covid-19 si diffonda principalmente attraverso il contatto ravvicinato da persona a persona, sia in caso di contatto diretto, sia in caso di prossimità, per effetto di goccioline di respiro espulse quando le persone tossiscono, starnutiscono, parlano o respirano; l’infezione può avvenire sia per trasmissione aerea, sia attraverso il contatto con superfici contaminate (cfr. doc. 33, fascicolo ricorrente).
Innumerevoli sono stati, negli ultimi due anni, gli interventi legislativi ed amministrativi volti, da un lato, a rimediare ai danni provocati dalla pandemia, dall’altro a contenerne la diffusione, mediante la predisposizione di cautele e l’emanazione di specifiche prescrizioni, quali l’utilizzo di mascherine protettive, il distanziamento, il divieto di assembramento, l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione se non per comprovate ragioni, ecc. (https://www.governo.it/it/coronavirus-normativa).
Le raccomandazioni per la prevenzione della malattia sono efficacemente riassunte nel documento emesso dall’organizzazione Centers for Disease Control and Prevention prodotto in atti (doc. 33, fascicolo parte ricorrente, pag. 4) e costituiscono anch’esse fatto notorio, per la diffusione universale che hanno assunto e per il modo in cui hanno permeato la vita di gran parte della popolazione mondiale:
“- rimani ad almeno 6 piedi di distanza dagli altri, quando possibile. Questo è molto importante per prevenire la diffusione di Covid-19;
- Copriti la bocca e il naso con una maschera quando sei vicino agli altri. Questo aiuta a ridurre il rischio di diffusione sia per stretto contatto che per trasmissione aerea;
- Lavati spesso le mani con acqua e sapone. Se l’acqua e il sapone non sono disponibili, utilizzare un disinfettante per le mani che contenga almeno il 60 per cento di alcol;
- Evita gli spazi interni affollati e assicurati che gli spazi interni siano adeguatamente ventilati portando l’aria esterna il più possibile. In generale, stare all’aperto e in spazi con una buona ventilazione riduce il rischio di esposizione a goccioline respiratorie infettive;
- Resta a casa e isolati dagli altri quando sei malato;
- Pulire e disinfettare regolarmente le superfici toccate di frequente e adottare altre misure per fermare la diffusione a casa”.
Indicazioni similari si rinvengono nella circolare del Ministero della Salute del 22.2.2020 (doc. 28, fascicolo parte ricorrente), ove è anche sottolineata l’importanza di procedere a specifiche sanificazioni negli ambienti sanitari.
E’ altresì fatto notorio che nei primi mesi di sviluppo della pandemia, le strutture sanitarie italiane - ed in particolar modo quelle lombarde - abbiano visto aumentare a dismisura il numero dei ricoveri, con conseguente aumento del carico di lavoro presso le strutture stesse, sia sotto il profilo dell’assistenza sanitaria, sia sotto il profilo delle incombenze amministrative legate all’alto numero di accessi e di ricoveri.
La circostanza trova conferma nella deposizione del sig. , coordinatore infermieristico dell’ospedale, che ha così descritto la situazione del suo reparto nei mesi di marzo e aprile 2020: “la mia rianimazione era diventata, come in tutti gli ospedali di Milano, rianimazione Covid, cioè non avevamo più pazienti normali, quindi negativi, avevamo solo pazienti positivi al covid, distribuiti nei reparti che potevano accogliere pazienti in rianimazione. La mia rianimazione era diventata, ad esempio, da otto a 32 posti letto. Io avevo il quadruplo dei pazienti ed il quadruplo di personale.”
4. Con il presente ricorso la signora ha chiesto l’accertamento della qualificazione di infortunio sul lavoro della sua assenza per Covid-19 protrattasi dal 1.5.2020 al 29.6.2020.
A tal fine ha dedotto di essere dipendente dell’ospedale , con mansioni di assistente amministrativo e di avere lavorato, nel periodo oggetto di causa, presso la Direzione Medica di Presidio e presso la c.d. “Centrale Cartelle Covid”, ufficio istituito ex novo all’interno della struttura sanitaria proprio per fare fronte all’emergenza Covid sotto il profilo degli adempimenti amministrativi connessi ai ricoveri.
La ricorrente ha anche dedotto (e provato, doc. 5, fascicolo parte ricorrente) di avere svolto in detto periodo numerose ore di lavoro straordinario, così aumentando la propria permanenza all’interno degli uffici rispetto al consueto orario di lavoro.
L’Istituto ha definito negativamente il caso per mancanza di nesso causale tra l’evento lamentato e la lesione accertata, richiamando quanto comunicato dal datore di lavoro in data 16.7.2020 (doc. 22, fascicolo parte ricorrente): “con la presente si precisa che l’attività della signora non è a contatto con il pubblico (da cui la dicitura utenti interni inteso come personale ospedaliero). Come riferito in precedenza, la sig.ra S. è risultata essere il primo caso positivo nel gruppo di lavoro presso il quale è stata trasferita e non risulta inserita come contatti stretto con soggetti (colleghi) risultati positivi”.
Diversamente da quanto affermato dall’azienda nella interlocuzione con l’Inail, la ricorrente sostiene che negli uffici presso i quali ha prestato la propria attività lavorativa:
- vi era un accesso frequente di sanitari, di altri operatori interni ed altresì di operatori esterni;
- i locali non erano arieggiati o gestiti, a livello di ambienti e di spazi di lavoro, con modalità tali da ridurre il rischio di contagio;
- non vi erano procedure atte a limitare o scaglionare gli ingressi presso gli uffici;
- non venivano svolte sanificazioni specifiche, ma solamente la pulizia ordinaria;
- non venivano adottate misure precauzionali in relazione al materiale lavorato, in particolare per quanto riguarda i documenti e le cartelle cliniche che venivano trasmessi e trasportati tra i vari uffici.
5. Nel corso del giudizio è stata svolta attività istruttoria. I testi escussi hanno riferito quanto segue.
Teste :
“lavoro in Direzione medica di Presidio all’ospedale , svolgo funzioni amministrative e sanitarie.
Ho lavorato con la signora nel 2020; la signora , su consiglio della dottoressa , nel febbraio 2020 è stata spostata dalla sua postazione dove lavorava di solito, che si trovava all’ingresso della medicina d’urgenza, in Direzione Medica accanto alla dottoressa .
Ero anch’io in Direzione medica però lavoravo in segreteria.
Nel periodo in cui la signora era in direzione medica si occupava dell’inserimento dei tamponi che venivano fatti ed in più svolgeva le attività che svolgeva come segretaria di dipartimento Emergenza Urgenza.
Nel frattempo l’Ospedale, a marzo 2020, ha deciso di aprire la Centrale Covid, uffici in cui dovevano convergere tutte le cartelle covid. Il responsabile della centrale covid era il dott. ; nella centrale covid lavoravamo io, la signora S. e altre due infermiere professionali, , non ricordo il cognome. La Centrale covid si trovava al secondo piano, ex pediatria.
Noi ci occupavamo esclusivamente della parte documentale: quindi delle cartelle cliniche che arrivavano dai reparti Covid. Le cartelle venivano portate dalle caposale; se le caposale non potevano portarle, c’era il personale di supporto che provvedeva a portarle in centrale.
Le cartelle cliniche, sin dall’inizio dell’operatività della centrale Covid, venivano portate in ufficio e collocate in una stanza, la prima stanza a destra, stanza in cui non c’era niente, c’era solo un tavolo; le cartelle venivano posizionate su questo tavolo, le finestre della stanza venivano tenute aperte. Le cartelle venivano lasciate in questa prima stanza anche oltre le 72 ore, quindi anche per 5 giorni. La stanza veniva poi chiusa a chiave e nessuno vi accedeva.
All’ufficio Centrale Covid accedevano, oltre alla sottoscritta, alla signora S. e alle due infermiere, i medici, cioè i pediatri oppure i radiologi che avevano dato la disponibilità a lavorare sulle cartelle. Noi davamo loro le cartelle già decantate. Loro prendevano il documento e inserivano i dati di loro competenza nel sistema operativo. Poi la cartella veniva portata a noi nella stanza dove la mettevamo a posto.
La Centrale CARTELLE covid è stata poi spostata e siamo state trasferite in Archivio cartelle cliniche, questo è avvenuto subito dopo Pasqua, quindi nel mese di aprile.
L’ufficio era composto da una stanza in cui c’erano 4 scrivanie, ognuna di noi lavorava alla propria scrivania, ci occupavamo sempre delle cartelle cliniche.
I verbali di pronto soccorso non accedevano alla Centrale Covid, andavano direttamente in archivio cartelle cliniche che è ubicato sotto la direzione medica.
L’archivio Cartelle cliniche è un ufficio diverso rispetto a quello dove ci trovavamo noi.
Anzi preciso che quando, come ufficio centrale covid, siamo state trasferite al piano -1 siamo state trasferite all’interno dell’archivio cartelle cliniche.
L’ufficio era quindi composto da un unico locale in cui c’eravamo noi quattro della Centrale Covid, più il personale dell’archivio che già lavorava in quel locale, il sig. Antonio C., la signora Speranza S., la signora Alessandra D..
I verbali del pronto soccorso arrivavano direttamente in quest’ufficio, arrivavano in ufficio portati dal personale di supporto.
I verbali venivano lasciati in un carrello che si trovava all’interno dell’ufficio dove ci trovavamo anche noi; questo carrello si trovava vicino alla porta d’ingresso dell’archivio.
Noi in ogni caso ci occupavamo sempre delle cartelle cliniche.
Le cartelle cliniche in questo periodo venivano fatte decantare in un armadio che si trovava fuori dalla stanza. I verbali invece li portavano dentro perché si suppone che venissero fatti decantare già in pronto soccorso, ma io di tale circostanza non ho certezza.
I verbali sono stati portati all’interno dell’ufficio anche in seguito.
In relazione ai verbali la prassi era la seguente: questi verbali venivano portati nel deposito farmacia dal personale infermieristico e raccolti in una scatola. La stanza in cui si trovava detta scatola non aveva finestre.
ADR V. Pirotta. La signora nello stesso periodo in cui era stata assegnata alla centrale covid ha continuato anche a recarsi presso la direzione di presidio, perché doveva far attività di inserimento dati relativi alle cartelle che lavoravamo.
ADR Avv. Pirotta. Alla direzione medica di presidio accedevano anche i sanitari ed anche il sig. C., caposala della rianimazione. I caposala scendono in direzione per far firmare i registri degli stupefacenti, per fare richieste varie e anche per parlare con i dirigenti medici.
Alla Centrale covid accedeva anche personale esterno, in particolare i dipendenti della Microdisegno, che venivano a ritirare le cartelle e i verbali di pronto soccorso che erano stati lavorati per portarli presso il loro deposito che si trova a Lodi.
Alla direzione medica di presidio accedeva personale esterno; ancora nel periodo marzo aprile facevano accedere utenti che dovevano fare varie cose.
ADR Avv. Casagranda. All’inizio non c’era la rilevazione della temperatura; è stata messa a marzo inoltrato. Abbiamo sempre usato delle mascherine. Nella centrale covid noi eravamo proprio vestite, cioè avevamo camice, guanti, mascherine, cuffie, occhialini e la stessa abitudine l’abbiamo portata giù in archivio. Usavamo anche il disinfettante per le mani.
In direzione medica si usavano solo le mascherine ed il disinfettante. Ognuno di noi poi puliva la propria scrivania.
Negli uffici in cui siamo state io e la signora S. non venivano eseguite da parte dell’ospedale delle vere e proprie sanificazioni; venivano svolte le pulizie ordinarie, quindi lavaggio pavimenti, svuotamento cestini, pulizie dei bagni, ecc.
ADR Avv. Casagranda. Gli utenti esterni si presentavano con la mascherina e noi facevamo attenzione a non fare entrare in archivio troppe persone contemporaneamente.
Capitava però che personale della Microdisegno entrasse in ufficio e toccasse oggetti di vario genere; c’era o alcuni di loro che avevano i guanti ed altri che non li avevano.
ADR Avv. Pirotta. Nella direzione medica di presidio non c’erano plexiglass e non ci sono tuttora e l’ufficio non è così ampio da avere distanziamento tra le scrivanie. La stanza della direzione medica di presidio è più meno delle stesse dimensioni della stanza in cui ci troviamo adesso ed all’interno ci sono quattro scrivanie, degli armadi, alcuni mobili bassi dove poggiamo la documentazione.
Detta stanza comunica con tre altri uffici, quello del direttore, quello della sua segretaria e l’ufficio della dottoressa.
ADR Avv. Pirotta. Io ho lavorato con la signora sino al 30.4.
Il 4 maggio sono stata a casa in malattia fino al 10, per via della mia patologia che è la sclerosi multipla.
Ho sentito in questi giorni la signora che mi aveva detto che non era stata bene, che aveva la febbre.
La signora mi ha riferito di essersi recata in pronto soccorso e di aver dovuto chiedere di fare il tampone. Non ha avuto subito il risultato ed è venuta a saperlo dal direttore.
Quando ha saputo di essere positiva me l’ha comunicato: questo è avvenuto il mio ultimo giorno di malattia, cioè il 10 maggio.
L’11 maggio, su indicazione della direzione siamo stati tutti sottoposti al tampone.
Io ero positiva ed erano positivi anche i colleghi dell’archivio.
Una settimana prima di Pasqua il sig. si è presentato al pronto soccorso perché non si sentiva bene. In quella occasione non gli è stato fatto il tampone e quindi è rientrato al lavoro. Questo è accaduto proprio nel periodo in cui la centrale covid era stata portata giù in archivio.
In questo periodo c’era anche il marito di un’altra collega, , che era a casa da quindici giorni con tosse e febbre. La signora lavora in direzione medica.
La signora ha fatto il tampone un paio di giorni dopo rispetto a quando l’abbiamo fatto noi ed è risultata positiva. Poi è stata ricoverata.
Mi risulta che il sig. sia risultato positivo nel mese di aprile, prima di noi.”
Teste :
“Sono medico, lavoro in direzione medica, sono specialista in igiene e medicina preventiva.
Ho lavorato con la signora in direzione medica.
Per un periodo abbiamo condiviso la stessa stanza; la stanza in questione è molto più piccola rispetto a quella in cui ci troviamo adesso, circa la metà.
Eravamo io e la signora .
C’è un corridoio e da questo corridoio si accede alla stanza in cui eravamo io e la signora . La stanza non comunica con altre stanze.
Nel marzo 2020 nei locali in questione venivano svolte le pulizie ordinarie, non si facevano delle sanificazioni.
C’era la prescrizione dell’uso di dispositivi di protezione individuale, nell’ufficio in cui eravamo noi utilizzavamo solo le mascherine, mentre i guanti erano obbligatori per chi lavorava nell’ufficio cartelle cliniche, nella centrale covid.
ADR Avv. Pirotta, Ad un certo punto la signora è andata a lavorare all’archivio Cartelle Covid, ma comunque tornava in direzione medica perché lasciava le sue cose, ci incontravamo spesso perché entrambe facevamo molto tardi.
ADR Avv. Pirotta, mi sembra che in queste occasioni lasciasse le sue cose nella stanza grande.
ADR Avv. Casagranda. Confermo quanto riportato nei documenti 20, 21, 22 fascicolo Inail
Io non ho lavorato nell’ufficio cartelle covid, né nell’archivio. Non so quindi cosa facesse materialmente la signora S. in detti uffici.
L’ufficio Cartelle Covid è stato ad un certo punto trasferito vicino all’archivio, al piano meno 1.
Non erano gli stessi locali. C’è un locale di decantazione, un locale di verifica delle cartelle covid e poi c’è un locale archivio.
Non so dire dove lavorasse fisicamente la signora .
Alla centrale cartelle covid non accedevano utenti esterni, accedeva solo personale ospedaliero. La consegna delle cartelle veniva sempre effettuata da personale ospedaliero.
A detti uffici accedono anche i dipendenti della Microdisegno che è la ditta che ci fa l’archiviazione delle cartelle da remoto.
ADR Avv. Pirotta. Alla direzione medica di presidio possono accedere anche utenti esterni; in quel periodo erano ovviamente contingentati.
ersonale ospedaliero che accedeva alla direzione c’era anche il signor.
Non ricordo quando il sig. sia risultato positivo, forse a fine aprile.”
Teste :
“Io sono coordinatore infermieristico della rianimazione dell’ospedale .
Sono risultato positivo nell’aprile del 2020; il 27.4.2020 avevo fatto il tampone e mi avevano dato i risultati il giorno dopo, quindi il 28.4.
Il 24 sera avevo iniziato a stare male, ma pensavo che fosse per la stanchezza del periodo lavorativo che stavamo affrontando. Lo ricordo bene perché era il diciottesimo compleanno di mio figlio. Il giorno dopo, il 25.4.2020, mentre portavo in ospedale una dotazione di acqua che ci aveva donato l’Ipercoop ho cominciato ad avere brividi e quindi ho capito di avere la febbre. Sono tornato a casa e misurata la febbre ho scoperto di averla alta. In quel periodo, lavorando in mezzo ai pazienti Covid, chi aveva la febbre era obbligato a fare il tampone. Preciso che la mia rianimazione era diventata, come in tutti gli ospedali di Milano, rianimazione Covid, cioè non avevamo più pazienti normali, quindi negativi, avevamo solo pazienti positivi al covid, distribuiti nei reparti che potevano accogliere pazienti in rianimazione. La mia rianimazione era diventata, ad esempio, da otto a 32 posti letto. Io avevo il quadruplo dei pazienti ed il quadruplo di personale.
ADR Avv. Pirotta. In quel periodo frequentavo occasionalmente la direzione medica di presidio, sia per degli incontri organizzativi con la direzione, sia per consegne di pezzi di cartella che rimanevano in reparto, perché nel delirio di quei giorni ogni tanto restava qualche foglio in giro. Occasionalmente vuol dire due o tre volte a settimana, magari anche per puntate brevi. In queste occasioni in cui mi sono recato presso la direzione medica di presidio mi è capitato di incontrare la signora S..
Non sono mai andato alla centrale delle cartelle covid quando erano al secondo piano.
Noi avevamo solo cartelle covid che tenevamo nella c.d. zona “pulita”, chiuse in dei sacchi puliti, per almeno quindici venti giorni e poi la consegnavamo alla centrale che avevano costituito per le cartelle covid.
ADR Avv. Pirotta. Non c’erano regolamentazioni degli accessi alla direzione medica di presidio per quanto ci riguarda, tranne le misure relative ai dispositivi di protezione individuali che dovevano portare tutti.
Alla direzione medica di presidio accedeva anche personale sanitario. I medici di direzione medica erano spesso in giro per i reparti per questioni organizzative.
Posso dire anzi che questi medici che di solito sono burocrati della situazione in quella occasione si sono mossi per andare nei reparti covid, che erano reparti in cui all’epoca non veniva più nessuno, se non costretto.
Adr Avv. Pirotta. Può essere che in una occasione in cui mi sono recato presso la direzione medica, io abbia usato un telefono. Ricordo che in quella occasione c’era stato un battibecco scherzoso con qualcuno per via del fatto che avevo preso questo telefono.”
Teste :
“Io adesso sto lavorando all’ufficio cartelle cliniche.
Verso il mese di aprile dell’anno scorso sono stato ricoverato per quattro mesi, sono uscito a settembre.
Io ero un commesso della direzione medica di presidio, in quel periodo io lavoravo in archivio, mi occupavo del riordino delle cartelle, dei verbali di pronto soccorso, ecc.
Un mesetto prima ero andato per curiosità al pronto soccorso per farmi controllare l’ossigenazione. In quella occasione mi hanno fatto una lastra al torace, non hanno fatto tamponi. Mi hanno dato la macchinetta per controllare la saturazione per un mese.
Sono andato al pronto soccorso perché avevo dei problemi a dormire, di notte russavo.
Quindi dopo la visita in pronto soccorso ho controllato la saturazione tutti i giorni per un mese. In questo periodo sono stato a casa.
Quando sono rientrato, dopo un mese, al pronto soccorso non mi hanno detto nulla, né se i risultati di questo monitoraggio andavano bene, né se andavano male.
Lo stesso giorno in cui sono rientrato (mi sembra fosse lo stesso giorno ma non sono sicuro) a metà mattinata ho cominciato ad avere la febbre. Dal giorno dopo sono rimasto a casa e sono stato in cura con la tachipirina finché non sono collassato durante la notte e sono stato ricoverato.
ADr Avv. Casagrande. In quel periodo ho avuto contatti con la collega perché lei veniva a lavorare giù in archivio.
ADR Avv. Pirotta. Io lavoravo anche alla direzione medica di presidio, facevo su e giù e vedevo la ricorrente anche presso tale ufficio.
ADR Avv. Pirotta. In archivio dalla mia parte avevamo quattro tavoloni l’uno di fronte all’altro. La ricorrente era a fianco in uno spazio comunicante.
In archivio accedevano colleghi che portavano le cartelle e i verbali di pronto soccorso, c’era quindi un via vai per questi motivi ed inoltre c’erano anche i colleghi che si occupavano delle cartelle Covid”
6. L’istruttoria svolta ha, quindi, confermato che la ricorrente ha lavorato, curando gli adempimenti relativi alla gestione dei dati dei ricoveri e della relativa documentazione (verbali di pronto soccorso e cartelle cliniche), presso la Direzione Medica di Presidio dell’ospedale e successivamente anche presso la c.d. Centrale Cartelle Covid, sia quando tale “centrale” era allestita presso gli uffici siti al secondo piano “ex pediatria”, sia nel periodo (aprile 2020) in cui era stata spostata al piano -1 presso l’archivio cartelle cliniche.
Sia gli uffici della Direzione Medica di Presidio, che quelli della Centrale Cartelle Covid non erano organizzati in modo da garantire un efficace distanziamento tra gli addetti.
La teste sul punto ha riferito:
“nella centrale covid lavoravamo io, la signora e altre due infermiere professionali , non ricordo il cognome. La Centrale covid si trovava al secondo piano, ex pediatria. Noi ci occupavamo esclusivamente della parte documentale: quindi delle cartelle cliniche che arrivavano dai reparti Covid. Le cartelle venivano portate dalle caposale; se le caposale non potevano portarle, c’era il personale di supporto che provvedeva a portarle in centrale…
quando, come ufficio centrale covid, siamo state trasferite al piano -1 siamo state trasferite all’interno dell’archivio cartelle cliniche.
L’ufficio era quindi composto da un unico locale in cui c’eravamo noi quattro della d, più il personale dell’archivio che già lavorava in quel locale, il sig. , la signora , la signora .
(…)
Nella direzione medica di presidio non c’erano plexiglass e non ci sono tuttora e l’ufficio non è così ampio da avere distanziamento tra le scrivanie. La stanza della direzione medica di presidio è più meno delle stesse dimensioni della stanza in cui ci troviamo adesso ed all’interno ci sono quattro scrivanie, degli armadi, alcuni mobili bassi dove poggiamo la documentazione.
(…)
La signora nello stesso periodo in cui era stata assegnata alla centrale covid ha continuato anche a recarsi presso la direzione di presidio, perché doveva far attività di inserimento dati relativi alle cartelle che lavoravamo.”
La medesima teste ha anche confermato che negli uffici non venivano svolte delle vere e proprie sanificazioni, bensì unicamente le pulizie ordinarie: “Negli uffici in cui siamo state io e la signora S. non venivano eseguite da parte dell’ospedale delle vere e proprie sanificazioni; venivano svolte le pulizie ordinarie, quindi lavaggio pavimenti, svuotamento cestini, pulizie dei bagni, ecc.”
La circostanza è stata confermata anche dalla teste di parte resistente B. con riferimento agli uffici della Direzione Medica: “Ho lavorato con la signora in direzione medica. Per un periodo abbiamo condiviso la stessa stanza; la stanza in questione è molto più piccola rispetto a quella in cui ci troviamo adesso, circa la metà. Eravamo io e la signora S.. (…) Nel marzo 2020 nei locali in questione venivano svolte le pulizie ordinarie, non si facevano delle sanificazioni”
I testi hanno inoltre riferito che agli uffici in questione accedeva anche personale esterno all’ospedale, come gli incaricati della ditta che si occupava dell’archiviazione remota delle cartelle cliniche.
Vi era poi un consistente via vai di personale sanitario proveniente dai reparti Covid. Alla Direzione Medica di presidio, in particolare, aveva avuto accesso anche il sig. , coordinatore del servizio infermieristico, risultato positivo in data 28.4.2020 ed il sig. commesso della Direzione Medica di Presidio, anch’egli risultato positivo nel medesimo periodo, entrambi prima della ricorrente. Entrambi i testi hanno dichiarato di avere avuto contatti con la signora nel periodo antecedente alla positività, proprio accedendo alla Direzione Medica di Presidio.
A questo ufficio accedevano anche utenti esterni.
Teste : “All’ufficio Centrale Covid accedevano, oltre alla sottoscritta, alla signora S. e alle due infermiere, i medici, cioè i pediatri oppure i radiologi che avevano dato la disponibilità a lavorare sulle cartelle. Noi davamo loro le cartelle già decantate. Loro prendevano il documento e inserivano i dati di loro competenza nel sistema operativo. Poi la cartella veniva portata a noi nella stanza dove la mettevamo a posto. (…)
Alla direzione medica di presidio accedevano anche i sanitari ed anche il sig. C., caposala della rianimazione. I caposala scendono in direzione per far firmare i registri degli stupefacenti, per fare richieste varie e anche per parlare con i dirigenti medici.
Alla Centrale covid accedeva anche personale esterno, in particolare i dipendenti della Microdisegno, che venivano a ritirare le cartelle e i verbali di pronto soccorso che erano stati lavorati per portarli presso il loro deposito che si trova a Lodi.
Alla direzione medica di presidio accedeva personale esterno; ancora nel periodo marzo aprile facevano accedere utenti che dovevano fare varie cose.
(…)
Gli utenti esterni si presentavano con la mascherina e noi facevamo attenzione a non fare entrare in archivio troppe persone contemporaneamente.
Capitava però che personale della Microdisegno entrasse in ufficio e toccasse oggetti di vario genere; c’era o alcuni di loro che avevano i guanti ed altri che non li avevano.
(…)
Una settimana prima di Pasqua il signor è presentato al pronto soccorso perché non si sentiva bene. In quella occasione non gli è stato fatto il tampone e quindi è rientrato al lavoro. Questo è accaduto proprio nel periodo in cui la centrale covid era stata portata giù in archivio.
In questo periodo c’era anche il marito di un’altra collega , che era a casa da quindici giorni con tosse e febbre. La signora lavora in direzione medica.”
La circostanza è stata confermata dalla teste :
“Alla centrale cartelle covid non accedevano utenti esterni, accedeva solo personale ospedaliero. La consegna delle cartelle veniva sempre effettuata da personale ospedaliero.
A detti uffici accedono anche i dipendenti della Microdisegno che è la ditta che ci fa l’archiviazione delle cartelle da remoto.
ADR Avv. Pirotta. Alla direzione medica di presidio possono accedere anche utenti esterni; in quel periodo erano ovviamente contingentati.
Tra il personale ospedaliero che accedeva alla direzione c’era anche il signor C..”
Teste i:
“Sono risultato positivo nell’aprile del 2020; il 27.4.2020 avevo fatto il tampone e mi avevano dato i risultati il giorno dopo, quindi il 28.4.
Il 24 sera avevo iniziato a stare male, ma pensavo che fosse per la stanchezza del periodo lavorativo che stavamo affrontando. Lo ricordo bene perché era il diciottesimo compleanno di mio figlio. Il giorno dopo, il 25.4.2020, mentre portavo in ospedale una dotazione di acqua che ci aveva donato l’Ipercoop ho cominciato ad avere brividi e quindi ho capito di avere la febbre. Sono tornato a casa e misurata la febbre ho scoperto di averla alta. (…)
ADR Avv. Pirotta. In quel periodo frequentavo occasionalmente la direzione medica di presidio, sia per degli incontri organizzativi con la direzione, sia per consegne di pezzi di cartella che rimanevano in reparto, perché nel delirio di quei giorni ogni tanto restava qualche foglio in giro. Occasionalmente vuol dire due o tre volte a settimana, magari anche per puntate brevi. In queste occasioni in cui mi sono recato presso la direzione medica di presidio mi è capitato di incontrare la signora S..
Non c’erano regolamentazioni degli accessi alla direzione medica di presidio per quanto ci riguarda, tranne le misure relative ai dispositivi di protezione individuali che dovevano portare tutti.
Alla direzione medica di presidio accedeva anche personale sanitario. I medici di direzione medica erano spesso in giro per i reparti per questioni organizzative.
Posso dire anzi che questi medici che di solito sono burocrati della situazione in quella occasione si sono mossi per andare nei reparti covid, che erano reparti in cui all’epoca non veniva più nessuno, se non costretto.
Adr Avv. Pirotta. Può essere che in una occasione in cui mi sono recato presso la direzione medica, io abbia usato un telefono. Ricordo che in quella occasione c’era stato un battibecco scherzoso con qualcuno per via del fatto che avevo preso questo telefono.”
Teste :
“Verso il mese di aprile dell’anno scorso sono stato ricoverato per quattro mesi, sono uscito a settembre.
Io ero un commesso della direzione medica di presidio, in quel periodo io lavoravo in archivio, mi occupavo del riordino delle cartelle, dei verbali di pronto soccorso, ecc.
Un mesetto prima ero andato per curiosità al pronto soccorso per farmi controllare l’ossigenazione. In quella occasione mi hanno fatto una lastra al torace, non hanno fatto tamponi. Mi hanno dato la macchinetta per controllare la saturazione per un mese.
Sono andato al pronto soccorso perché avevo dei problemi a dormire, di notte russavo.
Quindi dopo la visita in pronto soccorso ho controllato la saturazione tutti i giorni per un mese. In questo periodo sono stato a casa.
Quando sono rientrato, dopo un mese, al pronto soccorso non mi hanno detto nulla, né se i risultati di questo monitoraggio andavano bene, né se andavano male.
Lo stesso giorno in cui sono rientrato (mi sembra fosse lo stesso giorno ma non sono sicuro) a metà mattinata ho cominciato ad avere la febbre. Dal giorno dopo sono rimasto a casa e sono stato in cura con la tachipirina finché non sono collassato durante la notte e sono stato ricoverato.
ADr Avv. Casagrande. In quel periodo ho avuto contatti con la collega perché lei veniva a lavorare giù in archivio.
ADR Avv. Pirotta. Io lavoravo anche alla direzione medica di presidio, facevo su e giù e vedevo la ricorrente anche presso tale ufficio.
ADR Avv. Pirotta. In archivio dalla mia parte avevamo quattro tavoloni l’uno di fronte all’altro. La ricorrente era a fianco in uno spazio comunicante.
In archivio accedevano colleghi che portavano le cartelle e i verbali di pronto soccorso, c’era quindi un via vai per questi motivi ed inoltre c’erano anche i colleghi che si occupavano delle cartelle Covid”.
D’altra parte i testi hanno anche confermato che nel periodo in questione vi erano state numerose positività tra i dipendenti dell’archivio.
Teste :
“L’11 maggio, su indicazione della direzione siamo stati tutti sottoposti al tampone. Io ero positiva ed erano positivi anche i colleghi dell’archivio”.
Quanto alle misure di protezione, i testi hanno riferito che presso la Direzione Medica di Presidio si usavano i dpi minimi (mascherine e disinfettante), mentre presso la centrale cartelle covid le misure di sicurezza erano più stringenti.
Teste:
“All’inizio non c’era la rilevazione della temperatura; è stata messa a marzo inoltrato. Abbiamo sempre usato delle mascherine. Nella centrale covid noi eravamo proprio vestite, cioè avevamo camice, guanti, mascherine, cuffie, occhialini e la stessa abitudine l’abbiamo portata giù in archivio. Usavamo anche il disinfettante per le mani.
In direzione medica si usavano solo le mascherine ed il disinfettante. Ognuno di noi poi puliva la propria scrivania.”
Quanto alle modalità di trasmissione e conservazione dei documenti oggetto di lavorazione, in particolare per quanto attiene ai verbali di pronto soccorso, i testi hanno riferito quanto segue:
Teste
“I verbali del pronto soccorso arrivavano direttamente in quest’ufficio, arrivavano in ufficio portati dal personale di supporto.
I verbali venivano lasciati in un carrello che si trovava all’interno dell’ufficio dove ci trovavamo anche noi; questo carrello si trovava vicino alla porta d’ingresso dell’archivio.
Noi in ogni caso ci occupavamo sempre delle cartelle cliniche.
Le cartelle cliniche in questo periodo venivano fatte decantare in un armadio che si trovava fuori dalla stanza. I verbali invece li portavano dentro perché si suppone che venissero fatti decantare già in pronto soccorso, ma io di tale circostanza non ho certezza.
I verbali sono stati portati all’interno dell’ufficio anche in seguito.
In relazione ai verbali la prassi era la seguente: questi verbali venivano portati nel deposito farmacia dal personale infermieristico e raccolti in una scatola. La stanza in cui si trovava detta scatola non aveva finestre.”
Sotto tale ultimo profilo è significativo che nell’ottobre del 2020 sia stato espressamente disposto che i verbali di pronto soccorso dei pazienti dimessi dovessero essere lasciati a decantare nel locale farmacia per almeno tre giorni “per ridurre il rischio di infezione del personale amministrativo” (doc. 7, fascicolo parte ricorrente).
7. In sostanza dall’istruttoria svolta sono emersi i seguenti fatti:
- la ricorrente ha lavorato, prestando anche attività di lavoro straordinario, presso la Direzione Medica di presidio e presso la Centrale Cartelle covid sino al momento in cui ha contratto la malattia e quindi sino a tutto il mese di aprile del 2020;
- a tali uffici avevano accesso personale sanitario, personale esterno ed utenti; in particolare presso la Direzione Medica di Presidio aveva accesso anche personale sanitario a stretto contatto con i pazienti Covid, mentre alla centrale Cartelle Covid, posta nell’archivio, accedeva anche il personale esterno della ditta Microdisegno, incaricata di gestire l’archiviazione remota dei documenti;
- presso la Direzione medica di presidio, ove le misure di protezione erano più blande, la ricorrente ha avuto contatti con il ed il , entrambi risultati positivi nel medesimo periodo, con positività accertata prima di quella della ricorrente;
- il ha dichiarato di avere iniziato ad avere sintomi in data 24.4.2020, quindi una settimana prima rispetto alla ricorrente, che ha riferito di avere iniziato ad accusare astenia e febbre in data 1.5.2020; allo stesso modo, anche il sig. C. aveva iniziato ad avere sintomi nel mese di aprile e quindi ben prima del malessere accusato dalla ricorrente;
- nel medesimo periodo vi sono state diverse positività tra gli addetti all’archivio, personale che condivideva il medesimo ambiente di lavoro della ricorrente e degli addetti alla centrale cartelle covid.
L’istruttoria svolta ha, pertanto, smentito quanto affermato dal datore di lavoro in sede di interlocuzione con l’INAIL e cioè che la ricorrente fosse la prima contagiata del proprio gruppo di lavoro, che la sua attività non prevedesse il contatto con utenti e terzi estranei alla struttura ospedaliera e che non avesse avuto contatti con soggetti risultati positivi (doc. 22, fascicolo parte ricorrente).
D’altra parte in sede di escussione testimoniale la teste i, che per conto dell’ospedale aveva fornito dette risposte all’INAIL, ha fornito dichiarazioni specifiche limitatamente al lavoro svolto dalla ricorrente presso la Direzione Medica di Presidio, dichiarando di non avere invece conoscenza diretta delle modalità con le quali la ricorrente lavorasse nella centrale Cartelle Covid e nell’archivio.
Sul punto dovranno, quindi, essere maggiormente valorizzate le dichiarazioni degli altri testi escussi, che hanno condiviso gli ambienti di lavoro con la ricorrente o che comunque hanno avuto esperienza diretta del flusso di personale e di documentazione tra uffici e reparti dell’ospedale.
8. Ai fini della decisione, va poi considerato che la ricorrente ha fornito una serie di ulteriori elementi di valutazione che, letti in maniera unitaria, consentono di escludere, sulla base di un giudizio di ragionevolezza, che il contagio possa essere avvenuto al di fuori dell’ambiente di lavoro.
La ricorrente ha, infatti, provato di risiedere a breve distanza dalla struttura sanitaria presso la quale lavora (doc. 8, fascicolo parte ricorrente); può quindi ipotizzarsi che la stessa non avesse necessità di utilizzare mezzi pubblici per recarsi al lavoro.
La signora ha anche provato di avere un figlio che lavora alla vicina Esselunga, ulteriore circostanza che consente di ritenere credibile che alla spesa non provvedesse direttamente la ricorrente (doc. 9, fascicolo di parte ricorrente).
Vi è, inoltre, prova che i familiari della signora non abbiano contratto il Covid nel medesimo periodo, come dimostrato dai test sierologici con esito negativo in atti (docc. 15-17, fascicolo parte ricorrente).
Va infine considerato che nei mesi di marzo ed aprile del 2020 erano in vigore le rigide prescrizioni adottate in occasione del c.d. primo lockdown, con conseguente drastica riduzione delle opportunità di entrare in contatto con altre persone al di fuori dell’ambiente di lavoro e della famiglia.
9. L’insieme di indizi gravi, precisi e concordanti sopra delineato consente di ritenere più che probabile che il contagio che ha causato l’assenza oggetto di causa abbia avuto origine professionale.
D’altra parte l’istruttoria svolta, con l’evidenziazione delle molteplici occasioni di contatto con personale interno ed esterno “a rischio”, quale il personale sanitario a diretto contatto con i malati Covid e quello che movimentava i verbali e le cartelle cliniche provenienti dai reparti Covid, consente di collocare la ricorrente nell’ambito del personale non sanitario operante all’interno della struttura ospedaliera per il quale il rischio di contagio deve ritenersi aggravato, come chiarito dallo stesso INAIL nella circolare n. 13, sopra citata.
La presunzione semplice di origine professionale ipotizzata per tale personale deve ritenersi applicabile anche alla ricorrente, tanto più che all’esito del giudizio non è emerso alcun elemento di segno contrario idoneo a superarla.
La domanda deve, quindi, essere accolta.
In ordine al periodo indennizzabile, deve rilevarsi che la ricorrente si è limitata a richiedere il riconoscimento del periodo di sessanta giorni coperto dalla certificazione in atti (docc. 11, 12, fascicolo parte ricorrente), certificazione emessa da una struttura sanitaria pubblica sulla cui attendibilità non vi è ragione di dubitare.
Deve inoltre osservarsi che l’Istituto convenuto in sede di gestione della pratica di infortunio non ha sollevato alcuna contestazione in ordine al periodo indennizzabile (doc. 23, fascicolo parte ricorrente), limitandosi a respingere la domanda sulla base dell’asserita insussistenza del nesso di causalità.
10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in considerazione della complessità della causa e dell’attività svolta.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, in persona del giudice dott.ssa Rossella Chirieleison, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed istanza disattesa, così provvede:
accerta e dichiara che il COVID-19 contratto dalla ricorrente in data 1 maggio 2020 costituisce infortunio sul lavoro ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 del TU infortuni e, per l’effetto:
condanna l’I.N.A.I.L. al riconoscimento in favore della ricorrente dell’inabilità temporanea assoluta nella misura di giorni 60;
condanna l’I.N.A.I.L. al pagamento in favore della ricorrente delle spese di lite che si liquidano nella somma di € 4.000,00 per compensi, oltre rimborso forfettario ed accessori come per legge;
fissa il termine di sessanta giorni per il deposito della motivazione. Così deciso in Milano, il 11/02/2022
Il Giudice del Lavoro Dott.ssa Rossella Chirieleison